Read Orco Rosso - A Dark Novel Page 2


  «Sono rimasto qui, mio signore, a fare la guardia alla tomba di famiglia. Temevo che tornasse, capisce? Avevo paura che…»

  Il dottore gli ha messo poi un dito sulla bocca, come a un bambino.

  «Non c’è niente di cui aver paura, amico mio. Ci sono io adesso e niente di brutto avverrà» si era voltato verso di me e con una certa rapidità si era affrettato ad aggiungere «Mai più».

  Il vecchio mi ha rivolto un’occhiata aspra, i suoi occhi, di un verde pallido, erano incrostati da quelle che sembravano anni di lacrime mai asciugate. Poi mi ha sorriso, scoprendo la bocca sdentata, costellata qua e là da denti gialli e consumati.

  «Vogliamo andare, padroncino? Ci aspettano, lo sa?»

  Ho guardato il dottore con apprensione ma lui, avvicinatosi all’orecchio, mi ha subito rassicurato.

  «Credo che il povero Jervis voglia che io visiti la tomba dei miei cari. È comprensibile che sia ancora molto affezionato. È un brav’uomo, un servo molto fedele. È a lui che devo la mia vita, capisce amico mio? Venga a trovarmi, se può, questa sera. Vorrei davvero mostrarle la mia libreria, amico mio».

  Ho annuito e sussurrato poche parole di congedo e ricordo di aver arretrato di alcuni passi. Il vecchio nel frattempo aveva tolto un mazzo di chiavi da sotto la maglia e aveva iniziato ad armeggiare davanti ai pesanti lucchetti. Alcune serrature erano scattate e il frastuono delle catene che cadevano fece voltare il mio ospite che, senza salutarmi, è entrato nel sepolcro, guidato per mano dall’antico servo.

  Nel pomeriggio mi sono recato da lui in visita, Netitia ha fatto preparare per me il cavallo e ho percorso la strada che ci separa da S******* a passo lento, cercando di intravedere tra le fronde i resti del maniero. Quando ho attraversato il ponte sul fiume ho intravisto qualcosa baluginare e sono sceso da cavallo. Per terra c’era una sorta di vite, dello stesso colore di quelle montate sulla carrozza del Dottore. Ho cercato allora di raffigurarmi la scena e ho ripercorso per due volte il ponte. Il fabbro era un uomo grosso e forte, un peso troppo grande per essere trasportato da due sole persone. Anche se si fosse trattato di un incidente il dottore era pur sempre un uomo di più di quarant’anni e il suo servo era piuttosto esile. Mi convinsi che doveva trattarsi di un’altra bizzarra coincidenza, il fabbro poteva essere caduto in acqua in altre mille circostanze e quel pezzo metallico rinvenuto poteva essersi semplicemente staccato a causa del lastricato irregolare.

  Al mio arrivo stava facendo buio e la vista dell’alberghetto, con le luci calde che trasparivano dalle finestrelle, mi è apparso come il più invitante dei richiami, soprattutto adesso che la sera si fa più fresca e l’autunno è ormai arrivato a tingere di rosso i boschi.

  Sono entrato nell’albergo e subito ho avuto come l’impressione che fossi atteso da lungo tempo poiché Edmund è comparso sulla soglia ad accogliermi e, senza che potessi scambiare una parola col proprietario, sono stato portato al piano superiore.

  Il mio ospite mi attendeva in una saletta tenuamente illuminata, la tavola era stata apparecchiata con estrema cura e le pietanze, nonostante si trattasse di piatti semplici, apparivano come ammantate di una desueta raffinatezza. Il Dottore mi è venuto incontro non già tendendo la mano ma spalancando le braccia come si fa nei confronti di un caro amico.

  Abbiamo preso posto agli estremi della tavola imbandita e il Dottore ha dispiegato con cura il tovagliolo sulle gambe.

  Jervis ci ha servito una zuppa fumante e, alla luce delle candele, ho notato come il ritrovato padrone si fosse preso cura di lui. Meno gobbo di questa mattina e con i capelli non più ingialliti e dispersi, era come se i vestiti azzimati avessero contribuito a restituirgli la dimenticata dignità. Ma le mani, le mani! Non riuscivo a staccare i miei occhi dalle dita lunghe e scarne che terminavano in unghie perlacee, artigli sarebbe meglio chiamarli, sotto i quali erano visibili tracce di terra ancora umida. Più cercavo di distogliere l’attenzione dai suoi gesti compassati, il cerimoniale silenzioso che pareva seguire nel servire il cibo, più che la mia attenzione veniva attratta da quel particolare. Il buon dottore deve aver indovinato i miei pensieri e si è quindi rivolto a me con vivace interesse, riprendendo, da dove era stato interrotto, il discorso di stamattina.

  «Dunque, mio buon amico, stamani mi diste che la scienza dei nostri predecessori non gode di molto rispetto da queste parti. Ebbene, nonostante ciò sono felice di aver trovato in voi, al contrario, un discreto ammiratore. Sono ancora molti i mali dell’uomo che solo quella scienza è capace di intuire, comprendere e, probabilmente, guarire».

  «Lo chiamano “progresso” e credo che a questo male non esista rimedio, se in tal modo vogliamo interpretarlo».

  «Progresso, dice. È bizzarro come questo grande progresso giunga sempre a guastare i momenti più belli e le opportunità che ci vengono offerte. La polvere da sparo, ad esempio. Potrebbe aprire passaggi tra le montagne, avvicinare gli uomini, eppure li divide e li rende capace di annientarsi tra di loro. Secoli fa il grande Flamel scoprì il segreto della pietra dei filosofi ma si dice che fosse tanto disgustato dall’agire dei suoi contemporanei da preferirne la distruzione piuttosto che se ne conoscesse il mistero. Dargli torto non credo sia possibile visto la sorte che è toccata a tutti gli altri grandi che lo affiancano nel discernimento dei misteri. Il grande momento dei lumi, l’era della quale siamo figli, ha spento più di quanto abbia acceso. Parlo della volontà di ravalicare i propri limiti, dell’ambizione insita nell’essere umano. Per quale motivo, secondo lei, non si è mai tentato di restituire la vita e ci si è sempre accontentati di preservarla?»

  La sua lunga dissertazione mi ha lasciato interdetto, devo ammetterlo. Più che altro mi aveva colto alla sprovvista. Il suo volto si era come illuminato e le candele che lo circondavano avevano preso a brillare di un’intensità diversa, ridisegnando i contorni del suo volto in un bagliore che ben poco lo rendeva amichevole.

  Con una certa vergogna, ammetto che ho balbettato la risposta.

  «Poiché ciò che è morto non deve essere disturbato. Non credo che un defunto sarebbe felice di essere riportato alla sofferenza del mondo, non dopo aver gustato le prelibatezze del paradiso…»

  «E cosa invece se si desiderasse strappare un’anima dalle grinfie dell’inferno e delle sue pene? Non sarebbe forse intento mirabile richiamare e riunire l’anima al corpo per dare una seconda opportunità all’anima un tempo vittima di tormenti?»

  La mia mano ha perduto il controllo sulla forchetta ed essa è caduta a terra producendo un clangore sinistro. Quel discorso stava prendendo una piega che anche adesso, nonostante siano trascorse alcune ore, ha il potere di rendermi inquieto. Mi sono chinato e sotto il tavolo ho visto la sagoma rannicchiata di Jervis, intenta, con i suoi occhi stralunati e vacui, a trarre da una scodella della terra umida, per poi avvicinarsela con avidità alla bocca. Ne sono riemerso con un’espressione che a fatica nascondeva la perplessità e l’orrore. Il mio ospite aveva riacquistato un’espressione bonaria, il volto cordiale e pacifico al quale ero stato abituato.

  «L’anima e la sua sorte è materia che compete la chiesa e i suoi ministri, non certo i medici o i semplici dilettanti come me. Lasciamo i morti nei loro sepolcri e curiamoci invece di argomenti più congeniali».

  Il mio volto doveva avergli nuovamente suggerito la presenza di un qualche problema e allora si è chinato, per poi riemergere con un’espressione contrita e imbarazzata.

  «La prego di scusarlo, amico mio. Per anni ha vissuto come un emarginato e nonostante ciò è rimasto un ottimo servo. In virtù del reciproco attaccamento e della gratitudine per il suo gesto mi vedo, mio malgrado, costretto a sopportare questa sua attitudine».

  A quelle parole mi sono impietosito ma l’appetito, fino a quel momento scarso, è del tutto cessato. Il dottore deve aver provato per me una compassione molto simile: ha perciò riposto il tovagliolo e si è alzato, non senza aver ringraziato il servo per le ottime pietanze. Mi ha quindi invitato a seguirlo nella stanzetta attigua nella quale aveva disposto con gran cura quella che, a suo dire, era solo una minima parte del tesoro letterario in suo possesso. Volumi e
volumi di inestimabile valore, alcuni così vecchi e consunti da essere custoditi in teche di vetro rettangolari. Uno, in particolare, adagiato su un leggio, ha attratto la mia attenzione. Rivestito di pelle scura, le sue pagine erano vergate in una calligrafia che mi è apparsa composta di serpenti attorcigliati.

  «È arabo, non è vero?» ho chiesto mentre avvicinavo il viso alla pagina per scorgerne le decorazioni ricche e le bizzarre figure che suggerivano terre lontane ed esotiche.

  Il dottore mi ha quindi posato una mano sulla spalla e con presa gentile ma ferma mi ha invitato a rialzarmi.

  «Il suo occhio una volta ancora non la inganna. Si tratta di un testo molto raro, uno di quelli che sarebbe prudente non possedere, a meno che non sia incoscenti o…»

  «Oppure?» ho chiesto dopo aver deglutito a fatica ed essermi scostato con rapidità.

  «…o semplicemente pazzi».

  Ho sgranato gli occhi e la mia domanda ha provocato il riso del mio ospite.

  «E lei, mio buon amico, a quale delle due categorie appartiene?»

  «La sua domanda è molto indiscreta ma pertinente. Ho mentito, innocentemente, ma ammetto di aver mentito. Esiste una terza categoria, forse la più pericolosa».

  «Sarebbe?»

  «I curiosi, mio buon amico. Sono un curioso, un collezionista di cose bizzare e dimenticate. Questo libro mi è costato un vero patrimonio ma le assicuro che vale ogni centesimo speso. È stato scritto da un principe arabo ritenuto pazzo dai suoi contemporanei e blasfemo dai suoi successori, tanto che il suo nome e il suo libro sono ancora annoverati tra quelli non graditi dal Santo Uffizio romano».

  «Cosa lo rende tanto interessante o proibito?»

  «Si dice che le visioni deliranti sotto l’influenza delle quali abbia scritto il suo libro l’avessero segutio nel mondo reale e avessero finito per divorarlo in una piazza in pieno giorno. Le ultime parole del povero autore, secondo la ben poco affidabile tradizione postuma greca, furono “Necronomicon, necronomicon”».

  «Necronomicon? Se non mi inganno dovrebbe significare…».

  «La legge dei morti. Sono convinto che alcuni dei progressisti sarebbero concordi con me nell’ammettere che il modo migliore per conoscere il mistero della vita è comprendere prima il segreto della morte e di ciò che si trova al di là di essa».

  Un tuono è giunto poi a interrompere il silenzio calato su di noi e il mio ospite mi ha di nuovo sorriso conciliante.

  «Temo l’ora si sia fatta troppo tarda perché continui a discorrere di argomenti tanto forti senza temere che il mio sonno possa non esserne condizionato, amico mio».

  «Il tempo là fuori minaccia tempesta e poco prudente sarebbe per me lasciarla andare».

  «Non voglio abusare della sua ospitalità più di quanto abbia fatto fino a questo momento. Un borgomastro è abituato a questo genere di intemperie, soprattutto in questa stagione».

  Il mio ospite si è detto piuttosto dispiaciuto e la sua espressione mi è apparsa risentita. Ho guardato fuori dalla finestra, le nubi turbinavano gravide di tempesta e la pioggia era divenuta battente, i profili frastagliati dei monti, disegnati dalle folgori, accendevano in me fantasie grottesche e ben poco rassicuranti. Ho dovuto ammettere a lui, prima che a me stesso, che il suo invito fosse ben accetto. Il dottore si è affrettato a ordinare a Jervis di preparare per me la stanza per gli ospiti, nella quale avrei potuto riposare fino al mattino seguente, quando Edmund avrebbe provveduto ad accompagnarmi a casa con la vettura. Adesso, alla luce della candela dello scrittoio, mi trovo a riflettere su quanto accaduto in quella, che a oggi, sembra essere stata la giornata più lunga della mia vita. È una vera fortuna che abbia sempre con me questo piccolo diario, divenuto ormai il confidente più caro. Netitia rimarrà sicuramente in piedi fino a tardi, passerà una notte insonne attendendo il mio ritorno e crollerà con la testa candida sul tavolo. Provo un sincero dispiacere nei suoi confronti ma sono sicuro che il suo buon carattere le farà dimenticare questo incidente al più presto.

  25 settembre, notte.

  Sono stato svegliato da alcuni rumori concitati, alla fine di un sogno non meno agitato. In esso mi trovavo all’inizio del ponte da me attraversato ieri pomeriggio, era notte fonda e c’era un uomo imponente che camminava con passo malfermo vicino al parapetto. Poi, all’improvviso è sbucata una carrozza lanciata a velocità folle che ha investito l’uomo, il suo corpo è stato sbalzato a terra con violenza mentre gli zoccoli e le ruote gli passavano sopra. La vettura si è fermata dopo qualche metro, una delle ruote era visibilmente malridotta in seguito all’urto. La vittima si contorceva e le sue urla mi arrivavano distorte dagli abissi del sogno. Da essa sono poi scese due figure ammantate di nero che l’hanno sollevato, forse per soccorrerlo. Era pesante, molto pesante, l’hanno rimesso in piedi contro il parapetto a fatica e poi, senza indugiare, l’hanno precipitato nel fiume. Poi, senza scambiarsi una parola, i due sono tornati a bordo della vettura e il conducente ha lanciato di nuovo la carrozza contro la notte. La vettura era diretta contro di me e non ha fatto niente per scansarmi: il rumore degli zoccoli contro la pietra era diventato un rombo nelle mie orecchie e il terrore che la vista di quei ronzini neri ha suscitato in me deve avermi fatto svegliare di soprassalto proprio mentre il rumore di zoccoli si perdeva nella notte. Mi sono alzato dal letto con un’agilità che non mi è certo familiare, non durante la notte almeno. Mi sono sporto dalla finestra, solo per vedere una carrozza allontanarsi a velocità sostenuta. Insospettito sono uscito dalla stanza e ho perlustrato con circospezione la casa. Era vuota. Non c’era traccia né del mio ospite né del servo. Appunto queste poche righe mentre prendo la decisione più avventata della mia vita.

  Seguirò quell’uomo e, se necessario, sono pronto ad arrestarlo come responsabile della morte del fabbro.

  25 settembre, mattina.

  Devo ammettere di essermi sbagliato. La suggestione della notte ha fatto sì che giungessi a conclusioni che in nessun modo possono essere consentite a un uomo che occupi la mia posizione. Ripercorrerò i fatti in modo che, chiunque si troverà (anche se dubito fortemente) a leggere queste mie, non mi giudichi troppo sciocco.

  Stanotte, non appena ho riposto il diario, mi sono vestito di fretta e sono andato a riprendere il cavallo. Come temevo, la carrozza del mio ospite era sparita.

  Senza indugiare oltre sono salito in sella e sono corso verso la direzione che temevo avesse preso. Pensai, animato da un moto di terrore, che qualcun altro avrebbe potuto incontrare la carrozza e fare la stessa fine del fabbro. Non lo avrei potuto tollerare, non senza punire quello che ormai mi appariva come un assassino senza remore.

  La mia corsa sul terreno bagnato sembrava guidata da un ardore che non ricordavo di possedere e il cavallo, nonostante non fosse abituato a tale conduzione, sembrava voler assecondare i miei propositi giustizieri. Sono giunto in prossimità del ponte, illudendomi di trovare la carrozza ferma e di nuovo due uomini ammantati di nero trascinare verso la morte un nuovo malcapitato. Il ponte invece era deserto e immobile come le acque che scorrevano al di sotto di esso. Stupito, arrabbiato con me stesso e rammaricato, ho chinato la testa e riflettuto sui dettagli che mi avevano portato a quelle conclusioni. Poi, per un attimo, il mio cuore era balzato di nuovo in gola quando ho visto una luce agitarsi tra le rovine del maniero dei F**********. Maledicendo me stesso per aver dubitato del mio ospite, mi sono allora diretto verso la luce, percorrendo il sentiero dismesso e tortuoso che dalla strada maestra proseguiva attraverso quello che era stato il rigoglioso giardino della magione. Arrivato in prossimità dell’ingresso ho visto la carrozza parcheggiata in un angolo e, fissato il cavallo a uno degli alberi che si protendevano nel piazzale, mi sono messo in cerca del mio ospite, pensando, nel frattempo, a quale scusa avrei potuto inventarmi per motivare la mia presenza in quel luogo.

  Mi sono aggirato nell’ingresso crollato, attraverso mobili marci e vetri infranti e ho di nuovo visto la luce brillare in un angolo defilato di un perduto corridoio. Alla fine di una rampa di scale alcune lanterne denunciavano la presenza del Dottore, intento a conversare animatamente. Ho prose
guito a tentoni, fino a quando il rumore dei passi deve aver rivelato la mia presenza e la conversazione, che nel frattempo si era fatta più accesa, era cessata. Il dottore era emerso con un’espressione meravigliata che, senza ombra di dubbio, non si aspettava di vedermi. Ho finto un’espressione rincuorata, come per giustificare con il linguaggio del viso prim’ancora che con la voce, la mia apparizione.

  «Non era mia intenzione spaventarla, mio buon amico».

  Il Dottore ha espresso un sorriso conciliante ma sul quale gravava ancora un’ombra di stupore.

  «Capisco. Spero non sia stata la nostra conversazione di ieri sera a…guidarla fino a qui».

  Mi è sembrato sinceramente dispiaciuto, almeno questo è quello che ho creduto di scorgere sul suo volto dopo un lungo sospiro.

  «Vede, come già ebbi a dirle, mi capita sovente, da quando sono qui, di cedere ad attacchi di malinconia nei confronti di questo luogo. Ho preferito non disturbare il suo sonno, domattina Edmund sarebbe tornato a prenderla per riportarla a casa. Stanotte, forse proprio in seguito al fortuito incontro col buon Jervis, ho sentito il morso del passato acuirsi ancora di più e solo gli occhi e la memoria del mio fido servo hanno potuto guidarmi in questi meandri».

  «Cercavate qualcosa di particolare? Vi ho sentito parlare in tono concitato poco fa».

  Il Dottore si è tirato indietro, come colto da un improvviso ripensamento. Jervis lo ha superato e si è frapposto tra di noi, con propositi quasi minacciosi.

  «Non sono affari che riguardano un estraneo» gli occhi gialli dell’uomo non perdevano di vista i miei che, invano, cercavano di incrociare quelli del dottore alle sue spalle.

  Visto il silenzio del mio ospite, non ho potuto fare a meno di scrollare le spalle e congedarmi con freddezza. Prima di tornare al mio cavallo non ho comunque potuto fare a meno di soffermarmi per ispezionare la carrozza. Ho estratto dalla tasca il bullone mancante ma, nonostante combaciasse perfettamente con quelli utilizzati, non ne mancava nessuno e anzi, la vettura sembrava come nuova. Netitia, come avevo immaginato, mi attendeva con la testa adagiata sul tavolo e si è spaventata non poco quando mi ha visto rientrare.